Il trattamento dei dati sanitari in azienda ai tempi del Coronavirus

Il trattamento dei dati sanitari in azienda ai tempi del Coronavirus

Il trattamento dei dati sanitari in azienda si adegua all’emergenza sanitaria attualmente in corso.

Rilevazione della temperatura corporea

Il datore di lavoro può rilevare la temperatura corporea del personale dipendente o di utenti, fornitori, visitatori e clienti all’ingresso della propria sede.

La rilevazione della temperatura era prevista in accordi contrattuali (i protocolli tra le parti sociali del 14 marzo e del 24 aprile 2020), ma questi accordi sono diventati obbligatori successivamente al Dpcm 26 aprile 2020.

Che tutto ciò rispetti il Regolamento Ue sulla protezione dei dati n. 2016/679 (Gdpr) e, in particolare, l’articolo 9 (trattamento di dati particolari) sarà tutto da vedere, ma il risultato, oggi, è che ci sono norme che prescrivono la rilevazione della temperatura al fine di consentire o negare (se superiore a 37,5°) l’accesso in azienda.

Anche le Faq del Garante lo attestano, ricordando che il dato va conservato solo per ragioni probatorie e ciò precostituire una prova a disposizione del datore di lavoro sulle ragioni del mancato accesso in azienda.

Il problema, non risolto espressamente dalle Faq del Garante, è chi può misurare la temperatura e, in particolare, se è attività vietata al datore di lavoro, se è riservata al medico competente, chi può compiere la rilevazione nelle aziende per le quali non è previsto un medico competente.

A questo proposito si cita l’ordinanza n. 546 del 13 maggio 2020 del Presidente della Regione Lombardia, al cui articolo 1 si legge che “il personale prima dell’accesso al luogo di lavoro deve essere sottoposto al controllo della temperatura corporea da parte del datore di lavoro o suo delegato”.

Nelle Faq il Garante prende posizione sull’accesso dei visitatori: quando la temperatura corporea viene rilevata a clienti (ad esempio, nell’ambito della grande distribuzione) o visitatori occasionali anche qualora la temperatura risulti superiore alla soglia indicata nelle disposizioni emergenziali non è, di regola, necessario registrare il dato relativo al motivo del diniego di accesso.

Richiesta di informazioni mediante autodichiarazione

Anche su questa materia, le Faq del Garante si limitano sostanzialmente a riportare alcuni aspetti del protocollo condiviso del 26 aprile 2020.

In effetti l’amministrazione o l’impresa possono richiedere ai propri dipendenti di rendere informazioni, anche mediante un’autodichiarazione, in merito all’eventuale esposizione al contagio da COVID 19 quale condizione per l’accesso alla sede di lavoro.

Ci sono limiti al contenuto della dichiarazione (provenienza, contatti), ma in ogni caso dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19, e i datori di lavoro devono astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata.

Ora, l’obiettivo di arginare la diffusione del contagio mediante forme di tracciamento dei contatti sociali non può che essere condiviso, ma le aziende e i lavoratori meritano un po’ più di certezze e di efficacia.

L’autodichiarazione non serve certo allo scopo così come non serve l’upload di dati giornalieri, così come non serve un sistema che forse partirà e basato su meccanismi che ne compromettono l’utilità (se non attivato da milioni e milioni).

Altrettanto inutili sono norme simboliche quali quella rinvenibile nell’ordinanza 546/2020, sopra citata della Regione Lombardia, in cui apparentemente si prescrive un precetto, ma in realtà ci si limita a “fortemente raccomandare” l’utilizzo della app “AllertaLom” da parte del datore di lavoro e di tutto il personale, compilando quotidianamente il questionario “CercaCovid”.

La “forte raccomandazione” non è un obbligo e mette in difficoltà datori di lavoro e lavoratori.

Tra l’altro ci si chiede se sia sanzionabile o meno il mancato rispetto di una raccomandazione e la risposta non può che essere negativa (nonostante quanto scritto nell’ordinanza).

Segnalazione di situazioni di fragilità

In capo al medico competente permane, anche nell’emergenza, il divieto di informare il datore di lavoro circa le specifiche patologie occorse ai lavoratori.

Nell’ambito dell’emergenza, il medico competente collabora con il datore di lavoro e le RLS/RLST al fine di proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19 e, nello svolgimento dei propri compiti di sorveglianza sanitaria, deve segnalare al datore di lavoro “situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti”.

Ma si faccia bene attenzione: ciò significa che il medico competente provvede a segnalare al datore di lavoro quei casi specifici in cui reputi che la particolare condizione di fragilità connessa anche allo stato di salute del dipendente ne suggerisca l’impiego in ambiti meno esposti al rischio di infezione; a tal fine, non è invece necessario comunicare al datore di lavoro la specifica patologia eventualmente sofferta dal lavoratore.

Effettuazione di test sierologici

Il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici, ma solo se disposto dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica.

Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici.

E sempre il medico competente può suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie, anche riguardo alla loro affidabilità e appropriatezza.

Inoltre, le informazioni relative alla diagnosi o all’anamnesi familiare del lavoratore non possono essere trattate dal datore di lavoro (ad esempio, mediante la consultazione dei referti o degli esiti degli esami).

Il datore di lavoro deve, invece, trattare i dati relativi al giudizio di idoneità del lavoratore alla mansione svolta e alle eventuali prescrizioni o limitazioni che il medico competente può stabilire.

Le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione della riammissione al lavoro del dipendente, devono essere posti in essere dal medico competente o da altro personale sanitario, e, comunque, nel rispetto delle disposizioni generali che vietano al datore di lavoro di effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti.